L’attenzione pastorale del Cardinal Ferrari

azione-pastorale

di Luigi Codemo

La popolazione emigra temporaneamente a […] in numero di circa […] persone dal mese di […] al mese di […]».

Questa richiesta di informazioni era presente sui questionari che il cardinal Ferrari faceva compilare ai parroci che raggiungeva durante le visite pastorali: tra le prime cose che voleva sapere era il dato sull’emigrazione. Fin da quando era diventato vescovo di Como, nel 1891, aveva potuto verificare con mano cosa significasse l’emigrazione nelle campagne e nelle montagne della Lombardia. Interi paesi si svuotavano: i più si dirigevano a trovar lavoro in Svizzera, Francia, Belgio, Lussemburgo. Tornavano solo per il periodo natalizio e questo spingeva il Cardinale a intraprendere le visite pastorali proprio in quel periodo, nonostante le vie di comunicazione si facessero più disagevoli. Costante fu dunque la sua attenzione a questo tema provvedendo aiuti in tutte le forme possibili. Appoggiò l’Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa avviata da mons. Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, e la Congregazione dei Missionari di san Carlo fondata da mons. Giovanni Battista Scalabrini per gli emigranti in America. Da parte sua inviò sacerdoti ad assistere gli emigrati a Zurigo, Lucerna, Metz e Bucarest.

Nel 1908 nominò una commissione incaricata di seguire con attività stabili gli emigrati all’estero. Nello stesso anno, di ritorno dal Congresso Eucaristico di Londra, si fermò in numerose città europee per visitare gli italiani che vi lavoravano e le attività di assistenza lì avviate. Il Cardinal Ferrari nel visitare il suo popolo anche fuori dai confini della diocesi mostrava quindi, assieme alla volontà di provvedere ai bisogni materiali e spirituali, l’importanza di una rete di relazioni internazionali, fatta di accordi e di aiuti, capace di andare oltre ogni barriera. La Compagnia di San Paolo seguì fin dagli inizi lo slancio internazionale insegnato dal cardinal Ferrari. Carisma e formazione dei Paolini riuscivano a rispondere bene alle esigenze inedite che si erano venite a creare tra operai e emigrati, integrando in questo modo la pastorale tradizionale che rimaneva invece centrata sui confini territoriali della parrocchia. Le “missioni” furono ben presto rivolte non solo all’Italia ma anche all’estero. Tra le prime nazioni che videro la presenza dei Paolini ci furono la Francia e il Belgio e il brano che qui pubblichiamo descrive in presa diretta questo esordio compiuto nel Natale del 1925. Le iniziative poi si moltiplicarono presto. Su “il Piccolo” del 1931 don Giovanni Rossi, stilando una sorta di bilancio delle attività fin lì svolte, scriveva: «Le missioni sono state in questi ultimi sei anni l’espressione più vera del nostro apostolato. Ne tenemmo circa ottanta in Italia e all’estero tra i nostri emigranti. Vi presero parte e sacerdoti e laici della Compagnia di San Paolo con un metodo particolare che abbraccia ogni condizione sociale e giunge in ogni cuore».

Dopo essere stato a Londra per il Congresso Eucaristico del 1908, il Cardinal Ferrari scelse di ritornare a Milano lungo un percorso che lo portasse a visitare i luoghi dove vivevano gli emigrati italiani: Belgio, Lussemburgo, Francia, Svizzera. Il brano che segue è tratto dalla lettera “Dopo i pellegrinaggi di Londra e Roma” che il Cardinale al suo rientro rivolse ai fedeli della propria diocesi.

«Ritornando da Londra approdammo non a Calais, ma ad Ostenda e di là a Bruxelles… Ad Esch, grossa borgata del Ducato di Lussemburgo, trovammo numeroso stuolo di operai italiani, venuti alla stazione festeggianti il nostro arrivo. V’è una casa con chiesa dell’Opera di assistenza, fondata dall’Eccellentissimo Vescovo di Cremona, con un segretariato per gli emigrati. Squisitissima accoglienza ne fece il Borgomastro colle altre Autorità del luogo, e ci avviammo insieme alla chiesa degli italiani, capace di oltre 400 persone. Una bambina mi rivolse la parola sulla soglia della porta, e mi sentii l’animo intenerito quando disse: “Noi poveri operai costretti dalla necessità ad abbandonare la bella Italia, ci troviamo lontani dalla nostra cara patria” e finì col domandarmi una parola di consolazione ed una benedizione. La dissi dal pergamo la parola desiderata, implorai dal cielo la benedizione a quei cari nostri fratelli, la benedizione coll’animo profondamente commosso, pensando ai pericoli ai quali sono esposti: pericoli per la fede loro e per la moralità. Fu allora che vidi più che mai provvidenziale l’Opera di assistenza alla quale contribuisce la carità dei buoni, ed è da augurare che tale opera, già diffusa in Isvizzera ed in Germania, abbia nuovo incremento.

Allora mi trovai ancor più lieto di aver parte, anche colla benedizione del Santo Padre, alla Consulta di questa Opera, per concorrere a provvedere dei buoni Sacerdoti che attendano all’Opera medesima nella varie stazioni. Allora potei maggiormente apprezzare il lavoro dei sacerdoti missionari che trovai in vari paesi e dei quali riportai cara impressione. Potei averli per qualche breve tempo vicini a me a gruppi a gruppi nelle principali stazioni; mi studiai di confortarli a continuare un’opera così provvidenziale e trovai in loro quelle buone disposizioni che valevano lenire il dolore che ognuno prova al pensiero delle miserevoli condizioni di quei poveri emigrati, specie dal lato religioso e morale… Di sito in sito vidi che i parroci, secondando lo zelo dei Veneratissimi loro Vescovi, hanno molto a cuore il bene dei nostri emigrati; ma agli italiani occorre che si parli la nostra lingua, e la parola viva è pur sempre quella che giova prima e più di ogni altra cosa, ed è necessario strumento anche alla cultura religiosa e morale.

Quello che trovai ad Esch lo vidi a Thionville, e più ancora la sera di quel giorno ad Hayange, dove ci fermammo quasi due giorni, accolti dalle autorità, dal popolo, specie dagli italiani; i quali ben presto affollarono quella vasta chiesa parrocchiale, sitibondi di una parola di consolazione e di conforto… Il nostro viaggio continuava verso Metz, passando per Briey, Arbon, Gross-Moyeuvre, facendo in ciascun luogo quella breve sosta che ci era consentita dall’angustia del tempo, tanto per vedere almeno qualche gruppo di operai italiani, ora presso i segretariati, ora nella chiesa, ora negli ospedali, o nei pensionati, come facemmo, dopo Metz e Strasburgo, a Friburgo, a Basilea, a Lucerna».

I brani seguenti, tratti da “il Piccolo” del 31 dicembre 1925, riportano la cronaca della prima missione dei Paolini fra gli emigranti italiani in Belgio. L’iniziativa era stata svolta dalla Compagnia di San Paolo su diretta richiesta di papa Pio XI. Chi scrive è don Giovanni Rossi.

«Martedì sedici dicembre partimmo da Milano… prima di noi erano pure stati avviati alle frontiere due vagoni che recavano tremila pacchi, preparati la notte di lunedì (in casa nostra ci si è abituati alle organizzazioni fulminee). Ogni pacco conteneva: calze, maglie di lana, altri indumenti, panettone, torrone, cioccolato, caramelle, giocattoli, libri per un valore cadauno di 100 lire […] A Charleroi trovai i nostri [membri della C.S.P.] in gran festa sebbene la neve ricoprisse tutto il paese e un cielo bigio cineroso incupisse come una cappa di piombo. Valendosi degli elenchi preparati dal consolato avevano già visitato alcuni dei principali sobborghi dell’immenso bacino, avevano già bussato ad alcune delle povere case degli italiani, avevano già stabilito un programma di lavoro… La mattina nella chiesa di Saint Christophe celebrammo la Santa Messa invocando le grazie del Signore, quindi le comitive si dispersero, accompagnate, le signorine, da buone signorine belghe che si prestarono con tanta generosità. Questa bella, efficacissima missione di casa in casa continuò sino alla sera del sabato per i cinquanta comuni disseminati nel territorio di Charleroi. Si recarono per strade fangose, sotto la pioggia, nei tuguri di tutti gli italiani a dire a tutti una parola fervida di fede e di italianità, ad accarezzare tutti i bambini, a dare a tutti un confetto, un’immagine, a consegnare il “buono” per il cesto natalizio, a invitare tutti al triduo predicato da Don Pini a Charleroi e da Don Carlo a Chatelinau. E le chiese, il giovedì, il venerdì e il sabato sera si riempirono. Ci avevan detto che non si sarebbero veduti più di una ventina di italiani. La domenica invece furono nelle due chiese circa seicento le comunioni. Si ebbero anche dei Battesimi, delle prime Comunioni, dei Matrimoni. Moltissimi dopo anni tornarono al Signore. Chi lo avrebbe mai detto? [ … ] […]Giunto al mattino nella città di Saint Etienne mi incamminavo per celebrare la S.Messa quando sento gridare: “Don Giovanni!” Mi volto. Era un gruppo dei nostri che mi venivan dietro frettolosi, ansimando, affondando i piedi nella neve. Mi dissero subito la letizia che li invadeva: “Gli italiani ci accolgono piangendo, non ci lascian partire, a tutti i costi ci offrono da bere acquavite, vino di Asti, vino di Bari. Proseguiamo, don Giovanni, andiamo a Roche La Mollière”. E via, andarono […] […] Nel pomeriggio mi recai a Roche La Mollière. Mi incontrai con con l’ing. Mazudier che mi disse parole di gran plauso per l’Italia. Lodò assai gli operai italiani e incaricò l’ing. Traifusse che ci accompagnasse nella miniera. Dovetti togliermi la talare, vestire la divisa di minatore, impugnare la lampadina di sicurezza, la piccozza. Un ascensore ci portò a 400 metri sotto il suolo. Girammo nelle oscure, diffusissime gallerie afose, polverose, calde fino a 40 gradi, in cerca dei nostri connazionali, che, seminudi, anneriti, con gli occhi di brace, sembravano cerberi. Li chiamammo per nome e sussultavano. Ci guardammo attraverso la poca luce sfavillante dalle lampade; dicemmo loro che ci mandava il Papa, che ci mandava l’Italia a portare una strenna natalizia e il buon augurio di pace. E quegli uomini, avvezzi alle più dure fatiche, si intenerirono e ci domandarono come mai il Papa si ricordava di loro, poveri e lontani. Ci chiesero notizie della patria. Non vi so dire le emozioni che provammo. Quando risalimmo era già calata la sera, ma non si vedevano le stelle, perché nevicava ancora».